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Pomponazzi, Pietro.

Filosofo italiano. Laureatosi in Medicina a Padova nel 1487, l'anno seguente ottenne l'incarico di professore straordinario di Filosofia in concorrenza con A. Achillini. Nel 1495, alla morte di N. Vernia, gli succedette alla cattedra di Filosofia naturale. Dopo la chiusura dello studio di Padova (1509), P. si recò a Carpi presso Alberto Pio; da qui passò a Ferrara (1510-12), dove ebbe modo di commentare il De anima di Aristotele, e infine a Bologna (1512-25) come professore di Filosofia ordinaria. Nel 1516 P. pubblicò, dedicandola al veneziano F. Contarini, la sua opera principale, il Tractatus de immortalitate animae. Lo scritto, riprendendo l'interpretazione naturalistica di Alessandro di Afrodisia del pensiero aristotelico, giungeva alla negazione dell'immortalità dell'anima; fu quindi immediatamente oggetto di aspre polemiche. Accanto a P., contro i rigidi difensori dell'ortodossia, si schierò l'intero gruppo dei "riformatori" dell'università bolognese, il cui appoggio convinse P. a non abbandonare il suo incarico. Il trattato fu bruciato pubblicamente a Venezia e P. dovette affrontare il giudizio dell'Inquisizione romana. Il tentativo di P. di difendere le sue tesi in un'Apologia, in cui polemizzava con il difensore dell'ortodossia Ambrogio Fiandino, ebbe il risultato di riaccendere le polemiche intorno al suo scritto. Grazie all'appoggio del cardinale Bembo, la condanna di P. fu lieve, limitandosi alla sola ritrattazione delle sue tesi (1518); il divieto stesso di circolazione del trattato fu ben presto tolto a condizione che portasse in appendice le conclusioni ortodosse sull'anima redatte da Crisostomo Javelli. Nell'ambito del dibattito suscitato dal Tractatus, si inserì anche la polemica con Agostino Nifo cui papa Leone X aveva affidato l'incarico di scrivere, a confutazione dell'opera di P., un Tractatus de immortalitate animae contra Pomponatium. P. ribatté con il Defensorium adversus Agostinum Niphum (1519), in cui sostenne la netta distinzione fra la ricerca razionale, propria del filosofo, e la fede, propria del cristiano. Intanto P. approfondì le sue ricerche anche in altri campi: al 1520 risale il De naturalium effectuum causis sive de incantationibus liber, in cui attaccò le superstizioni magiche, pur difendendo il valore dell'astrologia naturale; in quello stesso anno concluse la stesura del De fato, libero arbitrio et praedestinatione et providentia Dei, mentre l'anno seguente terminò il Tractatus de nutritione et augmentatione. Questi trattati, così come molti corsi tenuti su testi aristotelici, per evitare nuove polemiche e attacchi non vennero però pubblicati in vita da P.; il De incantationibus fu pubblicato nel 1556 e il De fato solo nel 1567. Esponente più significativo dell'Aristotelismo rinascimentale, P. sviluppa le sue riflessioni a partire da una netta distinzione fra l'ambito della filosofia e quello della fede. Ricalcando la tesi dell'Averroismo medioevale della "duplice verità", P. sottolinea la diversità di metodologia e di criteri di valutazione che separano filosofia e fede, per cui i risultati di queste due vie risultano del tutto incommensurabili. In quanto filosofo, P. rivendica a sé l'utilizzo del metodo razionale, basato sulla riflessione critica dei testi originali, prescindendo da ogni verità rivelata. Da questi presupposti discende la sua intenzione di ritornare all'originario testo aristotelico trascurando le interpretazioni, via via sedimentatesi nel corso dei secoli, estranee al genuino spirito dell'autore. L'originalità di P. consiste sostanzialmente nel tentativo di rinnovare criticamente la psicologia filosofica aristotelica, ponendo il problema dell'anima su basi puramente naturalistiche. Contro la cristianizzazione della filosofia di Aristotele, di matrice tomistica, e l'interpretazione averroistica, che sfociava nella distruzione dell'unità della natura umana come soggetto conoscente attivo, P. recupera l'interpretazione naturalistica e razionalistica di Alessandro di Afrodisia, considerandola la più fedele all'originario pensiero aristotelico. La differenza tra alessandristi e averroisti verteva sull'interpretazione da attribuire al terzo libro del De anima riguardante i rapporti fra intelletto passivo e attivo. Nel quinto capitolo del terzo libro, Aristotele aveva infatti distinto fra un intelletto potenziale (proprio di ciascun uomo e che, dal punto di vista conoscitivo, è in potenza tutte le cose) e un intelletto agente (separato e immortale e che è in atto in tutte le cose), che si configura come condizione fondamentale per far passare all'atto la potenzialità del primo. Di fronte all'oscurità del passo, tre interpretazioni si affermarono fin dal Medioevo: Tommaso aveva sostenuto che l'anima umana è sede di entrambi gli intelletti, il primo legato al corpo e perituro, il secondo spirituale e immortale. Alessandro aveva identificato l'intelletto agente con Dio; mentre gli averroisti lo concepivano come un'intelligenza universale, separata dalle anime individuali, le quali hanno solo un'intelligenza inferiore. Queste due ultime dottrine comportarono, in contrasto con la tesi tomistica, la negazione dell'immortalità dell'anima individuale. Per gli averroisti, essa sopravvive, ma nella sua più astratta impersonalità: ciò che è immortale non è una parte dell'anima umana e non si moltiplica con la moltiplicazione dei corpi, ma è numericamente una e identica per tutti gli uomini. Per gli alessandristi, l'anima, strettamente legata al corpo, muore con la morte di questo. P., nel Tractatus de immortalitate animae, discute le dottrine intorno all'anima degli averroisti, dei platonici e dei tomisti, con l'intento apparente di ricercare l'interpretazione più genuina della dottrina di Aristotele, ma in realtà prospettando, in termini di ragione naturale, il problema del rapporto tra la vita corporea e la vita spirituale, tra attività intellettuale e immaginativa e tra questa e la vita superiore. Secondo P. non è possibile sfuggire al dilemma dualismo-monismo: l'anima deve essere concepita o sostanzialmente separata dal corpo, o immedesimata con esso. Poiché la prima alternativa è insostenibile, non rimane che la seconda, nella quale P. crede di individuare il genuino pensiero di Aristotele, ma non degli aristotelici, ossia degli averroisti e dei tomisti, preoccupati, gli uni e gli altri, di affermare la dualità di corpo e anima. Per P. l'anima, se è veramente forma del corpo, non può in nessun modo essere considerata separata da esso: non vi è quindi alcun argomento a favore dell'immortalità dell'anima. Di immortalità si può parlare solo nel senso che l'anima è in grado, mediante il pensiero, di passare dal particolare all'universale, dal transeunte all'eterno, e quindi partecipa, in qualche modo, a un ordine di realtà eterne. Tale tipo di attività, tuttavia, non costituendo la sua operazione essenziale, ciò in base a cui l'uomo è uomo, non basta ad affermarne l'immortalità: l'uomo è legato alla materialità corporea e l'anima ha come principio essenziale il legame con il corpo, dissolto il quale non può avere esistenza autonoma. Nel De nutritione et augmentatione P. mostra come l'anima intellettiva e il pensiero siano strettamente legati al corpo in quanto dipendenti dagli organi di senso; a mitigare il materialismo di questa posizione P. introduce la distinzione fra dipendenza per quel che riguarda l'essere e per quel che riguarda l'operare. L'intelletto dipende dai sensi per quanto attiene alla sua operatività e non per quanto riguarda il suo essere. Il rifiuto di ogni prospettiva di vita eterna non pregiudica l'obbligo che l'uomo ha di obbedire alla legge morale. La validità della moralità nella prospettiva di P. è del tutto svincolata dalle prospettive ultraterrene: la virtù non è un mezzo per conseguire qualche scopo, compreso quello dell'eterna felicità, ma è fine a se stessa, si giustifica e si premia da sé, così come il vizio porta con sé il proprio castigo. Riprendendo posizioni di matrice stoica, P. afferma che la virtù è premio a se stessa in quanto si configura come naturale esplicazione della socialità umana, mentre il vizio pone l'uomo in contrasto con la sua natura, con i suoi simili e quindi lo rende inevitabilmente infelice. P., mentre da un lato afferma il principio dell'autonomia della morale e separa nettamente la sfera della moralità da quella dell'utile, riconosce al legislatore, cui compete appunto la sfera dell'utile, il diritto di imporre la credenza nell'immortalità dell'anima quale strumento per sottomettere i popoli ribelli. Echi stoici ritornano anche nel De fato e nel De incantationibus, dove viene esposta una concezione di determinismo fisico secondo cui tutta la vita degli uomini è regolata da leggi immutabili determinate dal corso degli astri; in questo contesto P. arriva a negare la possibilità del libero arbitrio e della provvidenza e parla di "oroscopo delle religioni": tutte le religioni, compresa quella cristiana, sorgono in una determinata configurazione astrale che ne determina sviluppo, successo e l'inevitabile decadenza (Mantova 1462 - Bologna 1525).